Nanà 👓

Un racconto di occhiali da secchiona.

Nanà era una sporca. Una sporca brutta cagna. Glielo dicevano tutti: suo padre e quelle voci. Nel bagno fatiscente e mal illuminato di casa, Nanà si lavava le mani sfregando il sapone sui palmi e sui dorsi, fra le dita, sotto le unghie. Tutti i giorni strofinava la saponetta avanti e indietro, insistendo con la brusca consumata e il getto dell’acqua ghiacciata. Si sentiva sporca e forse lo era davvero. A costo di farsi male con i suoi modi convulsi, con i suoi gesti ripetuti, con i suoi movimenti repentini, Nanà passava il sapone e la schiuma e l’acqua gelida finché le nocche venivano rosse sanguinanti e i polpastrelli blu pungenti, finché suo padre da sotto la intimoriva gridando «Chiudi l’acqua, puttana» e lei l’acqua la chiudeva subito perché con suo padre non si poteva scherzare, nemmeno col pensiero.
Quel pomeriggio Nanà prese di nuovo la brusca e si graffiò i piedi e i polpacci e le cosce e l’inguine, acqua fredda le colpì con violenza la schiena, bagnando e gocciolando i capelli castani appiccicati al collo e alla faccia. Strofinò il sapone sui denti e sulla bocca, maledetta inutile bocca, sulle guance e sugli occhi aperti, brucianti, e poi grattò e frizionò gomiti, ascelle e spalle, pancia, tette e culo e spinse schiuma fin su per la vagina, maledetta pure quella. Che a suo padre invece la vagina di Nanà piaceva eccome, soprattutto tra le lenzuola, ubriaco o sobrio che fosse e «Urla pure brutta cagna, tanto non ti sente nessuno». Il padre aveva ragione: Nanà non aveva voce, le sentiva soltanto.
Quel pomeriggio furono loro a dirle «Nanà sei incinta».

Cesco Cancian offriva il pane secco ai cigni nonostante a Caorle ci fosse il divieto. All’altezza della foce, quando i pescatori erano già al largo e il bar aveva ancora le saracinesche abbassate, Cesco apriva con la mano buona il sacchetto di carta e, guardingo, lanciava goffamente la colazione rafferma alle bestie in acqua. Un atto quotidiano di innocua ribellione di cui tutti sapevano e tacevano, vigili urbani compresi, che a Cesco procurava un intimo godimento. Ciò che tutti però non sapevano era che l’handicappato provvedeva al suo intimo piacere anche a tarda notte, osservando le coppiette appartate sulle sdraio in spiaggia a Ponente, dopo che le insegne delle vetrine si spegnevano e i turisti tornavano in albergo. Un copione semplice, che andava in scena da giugno ad agosto: ragazzi giovani, soprattutto tedeschi in ferie, che Cesco guardava nascosto tra gli scogli con il pisello di fuori. Mentre ascoltava i gemiti affannosi degli stranieri che scopavano, con la mano cattiva Cesco si masturbava.
«Prendi» gridò al cigno vorace che avanzava, «l’ultimo boccone è per te». La scarsa mira fece cadere il pane pochi massi più in là, dove una piccola ma insistente colonia di gabbiani pasteggiava di gusto, beccando avidamente senza sosta. Incuriosito, Cesco si sporse e un conato di vomito gli salì in gola. Nel mezzo di quel sbatter d’ali e garriti acuti, vide il corpo straziato di una neonata nuda, le unghie degli uccelli conficcate nel ventre aperto, i becchi ingordi scavarle gli occhi.

Per Nanà il cigolio stridulo della vecchia sedia a dondolo era un suono dolce e familiare, come se ondeggiare abbandonata su un consunto intreccio di vimini fosse la cosa più simile ad un abbraccio vero. Nanà conosceva bene le vibrazioni che venivano da fuori, quelle estranee alla sua gola, e conosceva bene anche le voci assordanti dei suoi pensieri, improvvisi ma costanti, che le parlavano e le chiedevano più di quanto volesse realmente sentire o fare.
Seduta su quella malconcia sedia a dondolo, nell’angolo buio di una stanza umida e sporca, Nanà cullava la sua bimba di due mesi e un giorno. Cercando disperatamente di scaldarne la pelle e il cuore, Nanà trasmetteva alla piccola quel poco di calore materno che aveva in corpo, molto più di quanto comunque avesse mai ricevuto lei.

Berto Dondadel aveva la passione per la caccia sportiva. Ogni anno da ottobre a novembre, cinque giorni a settimana, faceva la posta alle allodole in mezzo ai campi che a Portobuffolè fiancheggiano la Livenza. Invisibile, Berto si riparava nel suo capanno mimetico in mezzo all’erba alta, immobile e rigoroso nel silenzio della pianura all’alba, interrotto solo dal fruscio degli uccelli da vivi e dal loro tonfo da morti. Che lo sparo del fucile che squarcia prima l’aria e poi il petto non è un rumore, ma un sottofondo naturale.
Quel mattino, in prossimità del capanno, Berto sentì ancora il fetore crescere di passo in passo e pensò che era ora di finirla, che da giorni non si respirava perché qualcuno continuava a buttare sull’argine le carcasse delle lepri scuoiate, che l’odore era insopportabile e che la guardia forestale sarebbe dovuta intervenire e multare e «Porco Dio» disse a voce alta, «quella non è una lepre, è un bambina morta».

Nanà amava profondamente Lisetta ora che la teneva in braccio, davvero sua. Le somigliava. All’inizio no, non la riconobbe. Appena partorita vide il pianto nascere sulle piccole labbra contorte della figlia e pensò che era troppo diversa da lei. Poi però i giorni passarono e Nanà si affezionò, se ne innamorò. Nanà coccolava Lisetta, la cullava, dondolando su e giù nell’angolo buio della sua casa umida e sporca, teneramente.

Caio Fantuz gestiva un bar molto frequentato a Gaiarine, uno di quei posti sempre pieni di uomini dove si gioca a briscola, si guarda la partita e si bevono spritz e ombre di vino. Capello unto, adipe in eccesso e alito da tabagista, Caio si occupava della fornitura mensile di bibite e alcolici, dello svuotamento di cestini e posacenere e della regolazione volume del monitor impostato su Sky. Le restanti mansioni erano nelle mani di Alessia e Maria, due cameriere sui trenta, tuttetette tuttofare. Di Fontanelle, extension bionde e una rosa tatuata sull’avambraccio, Alessia era addetta anche a panini e tramezzini; rumena di un paese qualunque, corazzata di unghie plastificate da tre centimetri, Maria serviva ai tavoli ed era per tutti, affettuosamente, La Vergine.
Quel martedì, al terzo giro di Cabernet a cui aveva preso parte con la combriccola dell’aperitivo, Caio decise di cambiare canale perché Studio Aperto stava per iniziare e c’erano in ballo le votazioni e lui era uno che vota Lega. «Dai Maria, muoviti con i caffè» le disse masticando uno stuzzicadenti «non siamo mica in Romania, che fa anche rima». Solo che Maria non fecce un passo anzi, impallidì. Al tg dicevano che sulle sponde del Meschio, poco distante da casa sua, i carabinieri avevano trovato un’altra neonata morta. La terza nel giro di pochi mesi. Anche questa nuda e cianotica.

Inutilmente Nanà provava a fare ordine nel caos di quel congelatore. Così grande da poterci dormire dentro e così pieno di cibo da non trovare mai quello che serve, mentre fitte di dolore acute come spilli le attraversavano la punta delle dita. Immersa nell’aria gelida e secca Nanà rovistava nervosa tra le varie confezioni di plastica, vecchie di chissà quanti mesi, il cui contenuto era ormai irriconoscibile perché ricoperto di ghiaccio.
Poi, d’improvviso, si ricordò che anche Lisetta doveva mangiare: pazienza se non stava piangendo, Lisetta era una brava bambina e non frignava mai. Nanà alzò la testa di scatto, prese qualcosa fra le mani e portò in cucina quel che pareva essere uno stinco, di maiale sicuramente.

Lisetta non amava il momento della poppata. A differenza della maggior parte dei neonati che si attaccano al capezzolo e non lo mollano più, affamati e ingordi, Lisetta faticava a succhiare. Per Nanà era un supplizio dover stare con la tetta all’aria cercando di imboccare la piccola: tremava di freddo. Un po’ pizzicava con affetto le guance della bimba, un po’ cercava di tenerla sveglia; quasi sempre tutto inutile, a Lisetta scendevano al massimo un paio di sorsi. Nanà era la solita buona a nulla: distratta, incapace, nevrotica.
Come quella volta che scolando la pasta sentì qualcuno chiamarla. Di punto in bianco mollò la pentola ma combinò un disastro perché i rigatoni finirono ovunque e gli schizzi d’acqua bollente raggiunsero le mani di suo padre, troppo vicine ai suoi fianchi, e lui urlò. Un ceffone rapido e violento centrò Nanà in piena faccia e uno spintone la fece sbattere contro il muro tanto in fretta che, rimbambita e perplessa, a mala pena vide il padre slacciarsi la cinta e dirle sibilando «Adesso ti faccio vedere io, stupida brutta cagna».
Come quella volta che in legnaia notò fra i ceppi accatastati un ciuffetto di pelo bianco e poi uno grigio e uno nero. Avvicinandosi e spostando i ciocchi trovò una cucciolata di gattini, fitti l’uno sull’altro nell’attesa che la loro mamma tornasse. Nanà ne prese uno in braccio e siccome il micio aveva ancora gli occhi chiusi provò a scuoterlo perché insomma li doveva pure aprire questi occhi ma niente, rimanevano sempre stretti. Allora Nanà lo afferrò per il groppone e continuò a percuoterlo un poco, poi di più; provò ad allargare le palpebre con le dita ma fu inutile, quindi strusciò il muso del cucciolo sulla corteccia di un tronco dove una sottile linea scomposta di sangue rosso si impastò a della segatura. Lo afferrò per la pancia, lo strinse fra le mani con vigore e lo scosse su e giù come un biberon ma niente, la creatura ebbe solo la forza di aprire la bocca e tentare un lieve miagolio a cui Nanà, offesa per l’azzardo, reagì gettandolo per terra. Insolente, calpestò con lo zoccolo di legno quella minuscola testolina impiastricciata di vomito e sangue, si voltò verso i due batuffoli superstiti e sorridendo pensò “Tanto non vi sente nessuno”.
Come quella volta che in preda all’ennesima emicrania, Nanà appoggiò i palmi freschi sulle tempie. Dondolando su e giù nell’angolo buio della sua casa umida e sporca, cercò invano di calmare il dolore lancinante. Nanà sapeva già che non sarebbe servito, le pastiglie ingoiate non bastavano mai. Tutte quelle voci ridevano forti e chiare di e dentro di lei. Avrebbero continuato a girarle per la testa dicendo, chiedendo, urlando, suggerendo, consigliando, minacciando, obbligando, costringendo Nanà ad alzarsi in piedi, a correre sbilenca fra i mobili ammuffiti e maleodoranti con le braccia ciondolanti dei fantocci di pezza e colpire la fronte e il corpo contro le pareti scrostate una, due, tre, dieci volte, come una cimice si scaraventa ripetutamente su oggetti a caso nell’utopica speranza di passar loro attraverso.

Vania Segat avrebbe preferito non ricevere quella telefonata. Era un tranquillo e sonnacchioso sabato pomeriggio di metà dicembre e sarebbe volentieri rimasta a casa a guardare la prossima puntata di Verissimo, misurando il culo inesistente della Toffanin, ospite dopo ospite, gossip dopo gossip. Comodamente spiaggiata sul divano sfondato del suo soggiorno, confezione formato famiglia di Gocciole sottomarca a portata di mano, Vania mugugnò un “Madonna che palle, ok vado a prenderla io” alla sorella minore, bloccata nel cesso del suo appartamento da un’impietosa e irreversibile influenza intestinale. Vania abbandonò così la migliore interpretazione del secolo di single chiattona di mezza età, indossò un vivacissimo piumino blu elettrico su pantaloni slabbrati in pile, raccolse la borsa a tracolla e uscì in strada. In oratorio a Gaiarine c’era sua nipote Roberta, in preda ad un attacco di dissenteria acuta nell’ora settimanale di catechismo parrocchiale.
Vania salì in macchina, lanciò borsa e Samsung sul sedile accanto, spinse la frizione, mise in moto e partì. Strada Belcorbo era buia e annebbiata da una foschia umida e bianchiccia che mal prometteva. “Madonna che tempo di merda” pensò svoltando la curva, “oggi veramente merda a volontà”. Accese la radio sull’immancabile frequenza di Bella&Monella, controllò Whatsapp con la mano destra, con il polso si grattò nervosamente il mento. “Nessuna doppia spunta” ripeté tesa fra sé, “dai rispondi, dai!”. Di nuovo gli occhi sulla strada, di nuovo su Whatsapp. Poi ancora la strada e le notifiche su Facebook e il fosso pieno d’acqua. Poi ancora la strada, l’ultimo brano di Cremonini, la nebbia. «Madonna ha risposto! Fabiano ha risposto!» sbottò felice dimenandosi in ogni dove. Poi ancora la strada, la nebbia e il batticuore. La curva, il volto accaldato, il platano. Un nuovo messaggio, il buio, la strada, la nebbia. I sogni, le aspettative, una cenetta romantica, il matrimonio in chiesa, un futuro insieme, e poi la strada, la nebbia, la curva e poi, e poi, e poi Vania sentì un botto fragoroso, pieno e innaturale e qualcosa di pesante caderle addosso e allora chiuse gli occhi per un istante che durò un’eternità, o almeno così le sembrò. Perse il controllo del veicolo, sterzò bruscamente, gridò, frenò di colpo. Aprì gli occhi.
Ferma immobile con l’auto di traverso, il parabrezza della sua vecchia Opel Corsa ridotto ad una ragnatela deforme di vetri in frantumi, Vania percepì puzza di pneumatico e puzza di morte. Paralizzata dallo shock, con le mani ben salde sul volante come fosse la prima lezione di scuola guida, Vania si ritrovò a fissare l’asfalto di fianco a sé e quella sagoma a terra, rivolta di schiena, seminuda e incosciente, troppo incosciente. Deglutì, respirò a fondo, appoggiò la fronte sullo sterzo. Alzò lo sguardo, osservò attraverso il finestrino. Quella sagoma femminile, svestita e inanimata, era ancora là, ancora troppo inanimata. Vania si fece coraggio, prese lo smartphone e scese dal veicolo. Lentamente, con cautela, sorreggendosi con un ombrello, giurò che se fosse andato tutto bene, mai e poi mai avrebbe perso un’altra messa. Titubante, si avvicinò a quella giovane donna robusta, massacrata di lividi, riversa sulla carreggiata in una posizione anomala, con le gambe scomposte, nuda dalla vita in su. Vania toccò con delicatezza un braccio della disgraziata, fredda e inerme, che non si mosse. Le scostò i capelli dal volto, la riconobbe, sembrava respirasse ancora. Vania non perse altro tempo, compose il 118, disse «Madonna fate presto, ho investito Nanà! HO INVESTITO NANÀ!». Carica di adrenalina, si alzò in piedi, si guardò intorno e vide l’uscio spalancato dei Dardengo. Respirò a fondo e iniziò a correre attraverso il loro cortile infangato, alla ricerca di un bicchier d’acqua e di una coperta per riscaldare la ragazza. Varcata la soglia, Vania si fermò di colpo. Poi fu il nulla. La morte, la vita. Vania sentì il suo cuore comprimersi e perdere un battito e svuotarsi di tutto il sangue che aveva dentro, come una spugna strizzata durante la doccia. Barcollò, poi cadde svenuta.

Piercarlo De Nardi avrebbe preferito non ricevere quella telefonata. Era un tranquillo e sonnacchioso sabato pomeriggio di metà dicembre e sarebbe volentieri rimasto a casa a leggere l’ultimo Strega, comodamente rilassato sulla sua poltrona in cuoio testa di moro, nel religioso silenzio di un prete mancato di mezza età. Non potendo però ignorare la reperibilità nei giorni festivi, indossò il loden, raccolse la borsa con gli strumenti e uscì in strada. Ad attenderlo una pattuglia del Comando Provinciale dei Carabinieri di Treviso. L’auto era in moto e la portiera anteriore destra aperta. Piercarlo salì nella volante e in venti minuti furono a Gaiarine, dove nei pressi di strada Belcorbo il militare alla guida spense la sirena per non allarmare ulteriormente la folla giunta sul luogo. Erano tutti là i curiosi e i vicinanti, oltre la linea di sicurezza tracciata dal nastro bicolore, a scrutare con curiosità famelica ciò che stava succedendo all’interno della casa dei contadini Dardengo, oggi decrepita e mal tenuta, ereditata dal figlio Aldo. Alcuni erano usciti a piedi, altri in bici o in motorino, eccitati nel vedere l’ambulanza e le Alfa Romeo luccicanti sfrecciare in un buco di posto dove non succede mai niente, o quasi. Scendendo dalla macchina, Piercarlo vide il Ducato della Scientifica e un paio di giornalisti di Antenna Tre trafficare con microfoni e registratori e telecamere e bocche piene di domande e capì che per lui la giornata sarebbe stata davvero impegnativa, dentro e fuori quell’abitazione diroccata.
«Dottore, buonasera» lo accolse all’ingresso il maresciallo Pozzobon, «faccia attenzione, qui è un macello». Piercarlo diede uno sguardo fugace alla stanza cupa, illuminata da un’unica lampadina a incandescenza in fondo al corridoio. L’ambiente in cui si trovavano, un tinello obsoleto, era disseminato di una miriade di oggetti fuori posto: pezzi di vetro in frantumi sopra un tavolino laccato, probabili frammenti di una comune bottiglia di vino rosso; avanzi di cibo raffermo ed escrementi di topi su un piatto di ceramica sudicio; zoccoli da giardinaggio, bianchi, di legno, modello classico, con della presunta segatura sul tacco; una giacca a vento logora, scura, da donna, penzolava da un mensola senza libri. Nessun crocifisso. Abituatosi alla penombra, Piercarlo osservò il pavimento: un lago di sangue, coagulato da tempo, ricopriva tutta la stanza disseminata di orme bordeaux, uguali e discontinue. Per terra un cartoncino bianco con la cifra 1 indicava che si trattava del primo reperto. Alla sua destra una poltrona Bergere fuori moda. Macchie ampie, opache e rapprese, di evidente natura biologica, avevano completamente imbrattato la tappezzeria: reperto numero 2. I muri, chiazzati di muffa, presentavano almeno due evidenti fiotti rossastri e residui di sostanze organiche, interrotti dall’impronta allungata di una mano, risultato di un impeto violento a cui qualcuno aveva tentato resistenza: reperto numero 3. Piercarlo faticava a respirare: l’aria era densa e acre, puzzava di urina. La temperatura era di circa 10 C° ma ne percepiva molti di meno. Imposte chiuse, finestre serrate, assi di legno inchiodate ai battenti: l’unica via di accesso, o di fuga, era l’ingresso alle sue spalle. «Per cortesia, mi segua» continuò Pozzobon, «questo è solo l’inizio».
I due uomini proseguirono lungo il corridoio mentre quattro colleghi del R.I.S., incappucciati in tute bianche di pvc, scattavano le ultime fotografie alla pavimentazione. Sulle piastrelle a scacchiera segni di sfregamento e grumi di sangue brunastro: reperto numero 4. Avvicinandosi alla cantina, un fetore crescente, acido e nauseante colpì Piercarlo che d’istinto portò un fazzoletto alla bocca. Il maresciallo indicò l’angolo in fondo al locale. «Proceda pure. È tutto suo». Piercarlo avanzò verso il congelatore a pozzo, in funzione ma con l’anta spalancata, e per associazione pensò a quando era bambino e al baule pieno zeppo di giocattoli che non riusciva mai a chiudere; durante i sopralluoghi più difficili, focalizzare un’immagine ludica era il suo metodo per reprimere il malessere allo stomaco. “Che Dio mi aiuti” si augurò il medico infilando i guanti in lattice. Avanzò di due metri, si sporse verso l’elettrodomestico e poi chiuse gli occhi per un istante che durò una Quaresima, o almeno così gli sembrò.
Avvolti in buste trasparenti e chiusi in Tupperware colorati, Piercarlo riconobbe i resti straziati e induriti di un corpo umano. In superficie, tra sacchetti di minestrone Findus e Sofficini al formaggio, identificò le cinque falangi dell’arto superiore destro di un soggetto maschile: reperto numero 5. Dieci centimetri a sinistra, imperlate di goccioline d’acqua, alcune ciocche ingrigite. “Dev’essere un animale” pensò incerto. Sapeva di sbagliarsi. Lentamente, con cautela, aiutandosi con una biro e con la fede in Dio, Piercarlo spostò una confezione umidiccia di piselli. Poi fu il nulla. La morte, la vita. Piercarlo sentì il suo cuore cadere e sbattere contro lo sterno, lo udì in gola e nello stomaco. Fu un rumore netto, dal sapore metallico, come quando alle giostre il proiettile colpisce il barattolo di latta che casca saltellando all’indietro.
Incellofanato e tamponato con garze da farmacia impiastricciate di un liquido giallastro, Piercarlo identificò il cranio, in parte decomposto, di uomo adulto. Le palpebre spalancate aderivano perfettamente al sottile film di plastica e le labbra, attorcigliate in un ghigno disumano, erano cucite. Piercarlo le fissò con attenzione. L’omicidio, perché di altro non poteva trattarsi, era chiaramente di natura passionale e Piercarlo aveva davanti a sé quel che rimaneva di un povero Cristo con gli occhi sbarrati, vitrei, e l’epidermide cianotica. Caucasico, età ipotizzabile tra i cinquanta e i sessant’anni: reperto numero 6.
«Riteniamo si tratti di Aldo Dardengo», intervenne Pozzobon. «Naturalmente attendiamo la conferma della Sua perizia». Piercarlo si tolse gli occhiali, appannati dal proprio respiro, li pulì. Si avvicinò al militare. «Abbiamo posto alcune domande preliminari ai vicini di casa» continuò il maresciallo, «non vedono Dardengo da settimane. Sono convinti che sia partito per Cuba». Fece una pausa, porse al medico una busta. «I R.I.S. hanno trovato questo in cucina». Piercarlo guardò con attenzione l’oggetto all’interno: un coltello da scanno a manico fisso in corno di bue, lama da ventitré centimetri, in passato utilizzato dai contadini per ammazzare il maiale. Compatibile con le ferite da taglio sulla vittima: reperto numero 7. «In laboratorio stanno analizzando un campione di DNA rivenuto sul metallo» proseguì il maresciallo, «e le impronte rilevate sull’impugnatura. Un’unica serie, per fortuna». Poi un’altra pausa, questa volta più lunga. «Da comparare con quelle della figlia».
Piercarlo sembrò sollevato. Potenzialmente avevano l’arma del delitto, soprattutto avevano un’indiziata. «È già in caserma sotto interrogatorio?». Pozzobon lo guardò dritto negli occhi: «Non è possibile». Fece un profondo respiro. «Giovanna Dardengo, che in paese chiamano Nanà La Matta, soffre di una grave forma di afasia motoria: è completamente muta. Per lo meno questo è quanto hanno riscontrato gli operatori del 118 prima che perdesse di nuovo conoscenza». Piercarlo assunse un’espressione confusa. «La Dardengo è stata investita da una Opel Corsa. Alla guida c’era Vania Segat, una donna sui quaranta che risiede poco distante da questo civico. È stata lei a chiamare i soccorsi». Piercarlo socchiuse gli occhi, cercando dentro di sé la tessera mancante del puzzle. «Il medico e l’infermiere hanno trovato la Dardengo sull’asfalto, quasi priva di indumenti, con lesioni che risultano precedenti all’impatto con la Opel e…» prese fiato, «e una brutta infezione ai seni, post parto. Del conducente però nemmeno l’ombra. Ci hanno telefonato immediatamente. Subito dopo hanno sentito la Segat chiamare aiuto. L’hanno trovata sull’uscio, di là. Il resto… il resto è davanti ai suoi occhi». Il maresciallo deglutì, esausto. «In questo momento la Dardengo è al Ca’ Foncello, la stanno operando d’urgenza». Si guardò attorno, ancora incredulo. «Date le circostanze ho ritenuto opportuno convocare sia Lei, sia uno psichiatra forense». Piercarlo tolse i guanti, aveva bisogno di aria fresca, voleva uscire almeno un minuto da quell’inferno. Pozzobon lo bloccò: «Dottore, c’è dell’altro. Per cortesia, venga con me».

Piercarlo avrebbe preferito non ricevere quella telefonata. Nella carriera di medico legale aveva contribuito a risolvere tragedie di ogni categoria, partendo da quello che un cadavere ha da dirti, a modo suo. Il talento di Piercarlo stava tutto là: trovare le parole giuste dei morti, sparpagliate nelle loro carni fredde tra lacerazioni, ferite e punti di sutura. Sistemarle nel verso giusto, come i pezzi del puzzle di quando era piccolo, ripulendole da ogni traccia organica e da ogni ingiustizia subita. Il senso del suo lavoro era appunto dare un senso all’incomprensibile.
Solo che a volte, di fronte a tanta cattiveria consumata su un corpo, un senso proprio non c’era. Allora Piercarlo alzava la testa dal tavolo in inox e guardava la Croce appesa al muro e chiedeva a Lui. Nella sua sala autoptica chiedeva a Dio il coraggio per procedere e la forza per rimanere lucido. Gli chiedeva di aiutarlo a non perdere la Fede e la fiducia nel genere umano. Gli chiedeva il perché di tanto schifo.
Nell’angolo buio di quella casa umida e sporca, Piercarlo non trovò alcun crocefisso a cui appellarsi. Né al pian terreno né in camera da letto, dove Pozzobon lo aveva appena condotto. Ciò che vide fu un fagotto appoggiato per terra in una pozza d’acqua, avvolto da una coperta in lana rosa, bagnata. Si avvicinò lentamente, con cautela. Poi fu il nulla. La morte, la vita. Raggomitolato come se dormisse dolcemente, Piercarlo scoprì il corpicino straziato, gelido e inzuppato, di una neonata morta. Anche lei nuda e cianotica, anche lei con le labbra cucite come tutte le altre. La copertina presentava una parola scritta a pennarello, elementare e frastagliata: Lisetta. Lisetta, reperto numero 8. Piercarlo odiò quel cartellino identificativo. Lo odiò con tutto l’impeto che un uomo può provare quando ad essere toccati sono i figli invece dei padri. Piercarlo chiuse gli occhi e chiese a Dio il coraggio e la forza, gli chiese di trasformare l’odio in pietà. Quattro cadaveri di neonate nel giro di pochi mesi. Al telegiornale le avevano soprannominate “Le fanciulle della Livenza”, come se la loro giovinezza fosse stata donata all’acqua in cambio di chissà che cosa. Nessun valido indizio addosso a quelle salme innocenti, nessun campione da confrontare, nemmeno un testimone che aiutasse le forze dell’ordine a risolvere il caso. Piercarlo osservò la bambina. Riconobbe sul volto indifeso la stessa mano feroce degli altri tre omicidi: decesso avvenuto per strangolamento e conseguente asfissia, con l’aggravante di percosse ed escoriazioni multiple. Non per ultima, la firma dell’omicida: labbra cucite con spago in canapa. Un dettaglio di cui erano a conoscenza solo gli inquirenti. “Dello stesso tipo utilizzato dai macellai per stagionare i salumi” pensò. Piercarlo osservò di nuovo la piccola, le accarezzò la guancia destra, smunta e bluastra. Labbra cucite per tacere, labbra cucite per non essere sentita. Piercarlo pianse. Sapeva di dover analizzare ogni singola prova, verificare i risultati dei test, testimoniare in tribunale ma ormai aveva capito il perché, il perché di così tanto schifo.

«Deve aver partorito in casa» intervenne Pozzobon, «la bambina non risulta iscritta all’Anagrafe». Piercarlo sembrava non sentire. «Dottore, mi scusi» continuò Pozzobon ma Piercarlo lo interruppe seccamente: «Cosa c’è maresciallo? Per Dio cosa c’è ancora?»
«C’è che Giovanna Dardengo è deceduta. Non c’è la fatta».

Piercarlo strinse Lisetta a sè. Poi fu il nulla. Dondolando su e giù nell’angolo buio di quella casa umida e sporca, fu la morte, e poi la vita.

A miei compaesani.

“Nanà” è frutto della mia immaginazione dalla prima all’ultima parola. Ogni riferimento a persone, a circostanze reali o a opere letterarie è da ritenersi puramente casuale. Nel mio intento questa storia è un omaggio sincero a Gaiarine, dove sono cresciuta e a cui sono profondamente legata, e a tutta la sua comunità, che mi ha sempre benvoluta a dispetto (o per merito?) della mia indole, talvolta un tantino… sopra le righe.

Gaiarine (Tv), 25 novembre 2017.

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Sparuto dei piccoli 👓

Un racconto di occhiali da secchiona.

“Signora, Suo figlio è un bambino trascurato”.

Raccolsi tutto il coraggio che avevo in corpo e glielo dissi. Temendo un licenziamento immediato nella migliore delle ipotesi, una querela nelle peggiori.
La mamma di Vittorio, per come l’avevo ripetutamente immaginata nelle mie notti in bianco, non smentì la reazione che di lei avevo in mente: stupita, perplessa. Istintivamente realizzai che la mamma di Vittorio ai miei occhi era semplicemente una sciocca e un’ingrata, che i figli nascono sempre nelle famiglie sbagliate e mai in quelle giuste, forse per redimerle, forse per rendere il mondo un luogo ancora più confuso.

La prima volta che vidi Vittorio fu un sabato sera in pizzeria, qualche tavolo più in là del mio. Lo notai mentre leggevo svogliata il menù: tenuto buono a suon di discutibili promesse e video su Youtube, Vittorio stava seduto accanto ad un ragazzotto sulla trentina, piuttosto rude nei modi, l’aspetto saccente di cha sa tutto, voce alta e sguardo basso sullo smartphone. Nelle pause tra una sigaretta e l’altra il ragazzotto rientrava e sedendosi al tavolo, congedava la cameriera presa in prestito come tata e incalzava Vittorio a mangiare perché si era fatto tardi e il ragazzotto doveva uscire.
Pallido, assonnato e irrequieto: capii subito che Vittorio era figlio di quell’idiota e che Vittorio era l’ennesimo bimbo buttato là, in balia degli eventi e dei genitori.

La prima volta che guardai Vittorio dritto negli occhi fu giovedì 7 settembre. Lo accolsi all’ingresso della scuola materna dove lavoravo da dopo la laurea, accompagnato dal padre idiota. Vittorio indossava un grembiulino bianco stropicciato e sulla tasca destra, dove solitamente sta scritto il nome dello scolaro, non c’era niente. Né un ricamo, né una stampa trasferita a caldo. “La mamma ha detto che non serve” mi spiegò mesto in volto. Così fin dal giorno zero Vittorio fu il bimbo senza nome, senza una parola certa in cui ritrovarsi e riconoscersi.

All’ora del pranzo, disposti in fila per due, era mio compito accompagnare i piccoli al refettorio. Il pasto era semplice, sano e insipido come da disciplinare, e alla mia classe piaceva. Mangiavano volentieri la pasta in bianco, il merluzzo in umido e il purè. Tranne Vittorio che non toccava cibo. Nemmeno un sorso d’acqua, niente. “Vittorio, non hai fame?” chiesi inforcando per lui due mezze penne all’olio. “No”, mi rispose secco. “Voglio i Sofficini e l’aranciata. La mamma mi fa i Sofficini”.

Venne ottobre, il mese della zucca e delle castagne, e poi novembre. Quel periodo per noi maestre era di gran fermento a causa dei preparativi per la castagnata di San Martino, un leggero allenamento al Natale prossimo venturo. Ai nostri scolari era richiesto il massimo impegno: ai piccoli per incollare con la Vinavil le foglie secche sul cartoncino bianco, ai medi per colorare di arancione la grande zucca accanto al teatrino, ai grandi per imparare la filastrocca da recitare alla festa con i genitori. Tutti insomma avevano un ruolo importante. Vittorio però con la Vinavil preferì imbrattare i capelli ricci di Camilla e spingerla infine per terra, con tanto di foglie sbriciolate, urla e pianti. Toccò a me soccorrere la bimba che tra le lacrime già stava leccando la colla e poi recuperare Vittorio, rintanato in un angolo tra le seggioline e lo scaffale dei pennarelli. “Vittorio, perché ti sei comportato male con Camilla?” gli chiesi raccogliendo tutta la pazienza e la dolcezza, ormai vacillanti, che avevo in me. Ancora smunto in viso per quel raffreddore mal curato, Vittorio abbassò gli occhi e mi ripose: “Il papà ha detto che posso”.

L’11 novembre arrivò con un sole limpido e inaspettato, i genitori accorsero chiassosi e febbricitanti con i loro pargoli al seguito e la festa nel cortile dell’asilo iniziò. C’erano crostate con la marmellata di fragole, castagne cotte nei sacchettini di carta marrone, succhi di frutta confezionati e, soprattutto, una vivacissimo ed ingestibile baccano. Nel frastuono di circa sessanta bambini, con adulti suddivisi e sparpagliati in gruppi che più che alla materna sembrava di stare al liceo, scorsi un faccino avvilito e ancor più deperito al di là del cancello principale. “Claudia, maestra Claudia, è lei?” sentii chiamare tra la folla. Mi avvicinai alla ringhiera, osservando prima Vittorio affranto e poi l’adolescente prestata al mondo dei grandi, svestita H&M da testa a piedi. “Sono Deborah, la baby-sitter di Vittorio. C’è una specie di festa oggi, vero?”. “Sì” dissi tristemente, “c’è la castagnata dei bambini con i genitori”. “Ottimo” ribadì lei spingendo Vittorio in avanti, “glielo lascio fino alle 18.00. Ho la manicure dall’altra parte di Conegliano”.

Per due settimane Vittorio non venne in asilo. Nella mia classe il suo posto era vuoto e vuoti erano il mio cuore e la mia testa. Pensavo a Vittorio assente, probabilmente per l’ennesima bronchite, e mi chiedevo chi ci fosse a casa con lui, a prendersi cura di lui e di tutti i suoi bisogni di bambino o più realisticamente, a chi con e per lui non ci fosse affatto. In effetti Vittorio a casa ci rimase un giorno soltanto. La direttrice scolastica mi informò che gli altri dieci li passò nel reparto di pediatria di Treviso tra medici, infermiere e la baby “baby-sitter”. Ogni tanto capitava di là anche la mamma per sincerarsi che il morbillo fosse sotto controllo e che i suoi pensieri potessero tornare allo standard medio basso di Facebook-spritz-Facebook-seratona.

“Quando faccio i brutti sogni e chiamo la mamma, lei non viene” mi raccontò il piccolo in primavera, durante la merenda del pomeriggio. Era metà aprile, tutti i miei scolari indossavano il grembiulino impiastricciato dai colori a cera e mordicchiavano il loro panino su gradoni vellutati del teatrino, mentre Vittorio di nuovo in castigo stava in classe da solo con me. “Quando faccio i brutti sogni, io chiudo gli occhi forte forte”.
Di sgridarlo per aver buttato il pongo giù per il water proprio non me la sentii e la storia finì là, con Vittorio abbandonato a sé stesso, senza un punto di riferimento che non fosse uno, tranne me e tutta la sua tristezza.

Venne maggio e noi maestre portammo i piccoli a giocare all’aperto. Il cortile dell’asilo disponeva di un verde giardino con scivoli e giostrine verniciate di fresco e c’era anche una bella sabbionaia con palette e secchielli. I piccoli riempivano le tasche con sassi e sabbia, i medi si contendevano lo scivolo, i grandi facevano a gara rincorrendo il pallone di gomma. Da qualche tempo Vittorio non combinava più grossi guai, a volte divideva la sua merenda con Camilla o con Marco, dipendeva dai gusti dei suoi amichetti. Spesso mi stava appiccicato mentre sorvegliavo la classe e io lo lasciavo fare: stava imparando fiducia ed amicizia, era un bene. Quel giorno sembrava un giorno qualunque nell’infanzia serena di un bambino e nella vita normale di una maestra.

Non per Vittorio, non per me.

Mentre badavo ai piccoli, la direttrice scolastica mi chiamò dicendo di portare Vittorio in entrata, c’erano i genitori ad attenderlo. “I genitori?” chiesi allarmata, “come mai?”. Ci spostammo di qualche metro e la direttrice, arresa, mi disse: “Lo portano al Collegio Immacolata, la mamma si è offesa per la tua osservazione”. Poi, guardandosi le mani, aggiunse imbarazzata: “Questa è una lettera di licenziamento per te, arriva direttamente dal dirigente scolastico” e mi porse una busta chiusa. “È stato costretto, parlavano già di avvocati”. Lei abbassò lo sguardo, io anche. Soltanto che io non mi soffermai sulla busta, bensì su Vittorio. Che a dispetto della sua tenera età pareva già aver capito fin troppo della vita e di quella brutta situazione. Che a pochi passi da me non si lasciò prendere in braccio dai suoi ma corse e si aggrappò alle mie gambe e iniziò a piangere. “Non voglio andare via, voglio la maestra Claudia”. Si strinse ancor di più, io mi chinai, lui mi buttò le braccia al collo e un dolcissimo, lieve e indimenticabile “Ti voglio bene” uscì dalla sua bocca. Allora pensai che forse non tutto era andato perduto, che i figli migliori nascono nelle famiglie peggiori, forse per redimerle, forse per fare ordine in un mondo così confuso. Che Vittorio sarebbe cresciuto, forte e coraggioso come il suo nome, che come tutti sarebbe diventato grande e che come tutti avrebbe deciso da che parte stare. Che Vittorio sapeva riconoscere il bene e che quello avrebbe rincorso e scelto, giorno dopo giorno.

Con piccoli gesti, a piccoli passi, come uno sparuto dei piccoli.

“Sparuto dei piccoli” è frutto della mia immaginazione dalla prima all’ultima parola. Ogni riferimento a persone, a circostanze reali o a opere letterarie è da ritenersi puramente casuale.

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Berlino di merda 👓

Un racconto di occhiali da secchiona.

La prima impressione che Sara ebbe di Matthias fu quella di uno sfigato.
A vederlo lì, alla stazione di Schonhauser Allee, con la birra in mano e lo zaino penzolante da una spalla, non gli avrebbe dato due lire. Anzi, sfinita com’era, se le sarebbe riprese quelle due lire. Alto, pallido, con un paio di jeans troppo larghi e con addosso un giubbotto anonimo, scelto più per caso che per necessità.
“Non ci posso credere”, disse Sara tra sé e sé. “Aspetta! Aspetta! Non salire!” gridò e, sgomitando fra la gente, con una mano riuscì a fermarlo.
Sara pensava spesso a quella sera, anche adesso che Mattihas si stava facendo una doccia e lei cercava il reggiseno tra le lenzuola stropicciate. “Che sfigato”, ripetè sottovoce sorridendo. “E pensare che quello zaino non mi piaceva nemmeno”.

Lavorare su una strada a Berlino non significa per forza di cose essere una poco di buono. Sara lo sapeva benissimo. Ci sono molte strade e molti modi di vivere la strada e molte persone che la frequentano, la strada. In quanto a Sara, lei non la frequentava nessuno. E a dirla tutta, non le fregava un gran che. Il tedesco medio con cui aveva quotidianamente a che fare era di solito troppo preso dal lavoro o troppo fidanzato o tremendamente troppo gay. Capita. Sara passava le giornate osservando la gente, parlandoci, rubando loro qualche minuto e qualche numero di telefono e tutto ciò le fruttava un buon stipendio, provvigioni comprese. Stare per strada le piaceva, nonostante tutto. Tecnicamente doveva disturbare qualsiasi persona tra i 18 e i 35 anni che le passasse accanto, chiedere loro “Scusi, sta cercando un impiego?”, farsi dare nome, cognome, recapito, lasciare un volantino e “Grazie e arrivederci, l’ufficio risorse umane La chiamerà al più presto”. Facile, veloce, indolore. O quasi. Nel “quasi” vanno messi i -16° a mezzogiorno, gli sguardi e i commenti volgari (ben comprensibili anche da un’italiana esportata all’estero), la neve che scende costante da novembre a marzo, lo smog, i turchi che sputano, le mani arrossate, la voglia di starsene al caldo con un cappuccino bollente, i 50 centesimi per usufruire della toilette al centro commerciale e la sensazione ricorrente che qualcosa di fatale le stesse per accadere, sperando sempre non si trattasse di una brutta influenza intestinale dopo l’ennesima abbuffata di kebab.

Matthias non aveva tempo da perdere. Non più almeno. Trent’anni, capace a far tutto soprattutto dal punto di vista artistico, con un frigo semivuoto e una coscienza che funzionava a intermittenza, proprio come la luce del bagno nel suo monolocale da single sessualmente attivo a tre minuti dal Mauerpark. Se ne era reso conto improvvisamente, guardandosi allo specchio mentre si radeva. “Non ci credo che quella che vedo è una calvizie galoppante, non può essere”. Invece lo era eccome e non era nemmeno tanta piccola. “Beh, l’uomo calvo va alla grande” pensò, in piena fase auto celebrativa. Matthias aveva una buona dialettica, sapeva convincere le persone. Era così bravo da convincere anche se stesso delle cose più assurde. Potenzialmente sarebbe stato un ottimo commerciante se solo avesse avuto la costanza di presentarsi al lavoro tutti i giorni. Peccato che non si sentisse ancora pronto per questo, in fondo era giovane, aveva solo trent’anni. Ma quel mattino non erano effettivamente trenta. Erano trenta con un bel po’ di capelli in meno. E per la prima volta Matthias non riuscì a convincersi a pieno, il suo ego cominciò a vacillare. Si sentì strano, di una stranezza che non conosceva. Cercando di rimanere disinvolto, come se nulla fosse, si sciacquò la faccia, bevve un sorso di caffè, chiese gentilmente alla signorina quanti soldi volesse per le ultime tre ore trascorse nel suo letto e, dopo aver chiuso la porta alle sue spalle, solo e in silenzio, si sedette con la schiena al muro e scivolò in uno stato di semi consapevole catalessi totale.

Quel giorno Sara era davvero a pezzi. Non solo aveva nevicato per tutto il turno, le era toccato anche far coppia con uno nuovo che del lavoro non sapeva niente e lei doveva spiegargli ogni singola cosa, in tedesco ovviamente. Mezzora circa e sarebbe stata a casa, o meglio nella sua stanza, al 314 di Schliemannstrasse, su a Prenzlauer Berg. “Non c’è posto al mondo dovrei vorrei vivere se non qui” pensò, mentre saliva sulla U2 in direzione Pankow. “Nessun altro posto se non Berlino. Ja, genau” e si sedette accanto alle porte scorrevoli, iPod in una mano, zaino alla sua sinistra e Alanis Morisette nelle orecchie.

Dopo venti minuti di totale ed intenso struggimento esistenziale, Matthias capì che forse era il caso di iniziare a combinare qualcosa, possibilmente qualcosa di buono. Escluse fin dal principio l’ipotesi di dare una ripulita alla giungla di alcolici, sigarette e avanzi di cibo che avevano preso il sopravvento su tutto l’appartamento e l’idea di cambiare look lo sfiorò appena, perché lui era un maschio metrosexual, di quelli che un paio di jeans graffiati e un maglione vissuto basta e avanza. In equilibrio precario tra una bottiglia di vodka e un’autostima in netta discesa, prese il tabacco dalla busta sul comodino, lo sparpagliò per bene su una cartina, appoggiò con cura il filtro, ne leccò delicatamente un lato e con la maestria di cui andava fiero, rollò la cicca appena fatta e se la infilò dritta in bocca. “Tale e quale a ieri, uguale e identica a domani. Berlino di merda”, sbuffò scazzato guardando dalla finestra. “Che ci faccio io qua, proprio non so”. Diede un’occhiata intorno, buttò qualcosa nello zaino e uscì.

Camminare gli piaceva, gli era sempre piaciuto. A Monaco da bambino aveva il vizio di camminare fino in fondo alla strada, qualsiasi strada fosse. Così immancabilmente si perdeva e puntualmente qualche schiaffo di richiamo arrivava, come li definiva suo padre. Quel giorno Matthias camminò per chilometri e, immerso nel caos dell’ora di punta, decise che sì, era il caso di dare un senso alla propria vita, di mettere dei punti fermi, di ricominciare da dove tutto si era fermato, di scavare dentro di sé, di darsi una regolata. Di dedicare del tempo agli anziani, di aiutare i più deboli, di fare beneficenza. No, beh, un passo alla volta. Già frequentare una ragazza per più di una settimana sarebbe stato un buon inizio. E poi un lavoro, anche questo per più di una settimana. Come, dove e quando non li aveva ancora ben chiari in mente ma qualcosa si stava muovendo e fu una piacevole sorpresa scoprire che quel qualcosa, per una volta, non fosse nei pantaloni ma nel cervello. Fu così che, in piena fase catartica e senza nemmeno rendersene conto, salì sulla U2 in direzione Pankow, si sedette accanto alle porte scorrevoli, appoggiò lo zaino a terra e avvolto dal tepore di un vagone sotterraneo, beatamente si addormentò.

Pochi istanti prima che le porte si chiudessero, Sara prese lo zaino da terra, si fece largo tra la folla e trafelata e mezza sconvolta, scese della metro e si diresse verso le scale. “Non è possibile, è successo anche oggi. Devo ricordarmi di mettere la sveglia”, pensò. Cinque minuti e un numero incalcolabile di morsi della fame dopo, Sara entrò al chiosco dei turchi all’angolo tra Danziger e Schilemannstrasse e ordinò il pranzo.
“E’ proprio quello che mi ci vuole. Un doner kebab da un kilo e mezzo”. Poco dopo Kadir Il Turco le porse il panino, disse “Tre euro e cinquanta, prego” e, asciugandosi la fronte sudata, non capì per quale motivo Sara La Pallida, rovistando nello zaino, rispose con un secco “Oh, merda!” invece di un più cortese “Vielen Dank”.

Quando nel tardo pomeriggio fu di fronte al portone di casa, Matthias frugò in tasca in cerca delle chiavi. Nei jeans non c’erano, nel giubbotto nemmeno. Si ricordò di averle buttate sbadatamente nello zaino e si stupì molto quando invece di un fedelissimo portachiavi del Bayer Monaco trovò un assorbente rosa con Hello Kitty stampata sopra. “Oh, merda!”, esclamò. E in quel momento realizzò di essere stanco, stufo, affamato, infreddolito, single, quasi completamente al verde, senza un vero lavoro, anzi no, senza lavoro e basta, che da adolescente aveva i brufoli, che sua madre cucinava malissimo, che il suo cane si chiamava Scooby e che si trovava, a tutti gli effetti, senza chiavi di casa. Da qualsiasi punto di vista si guardasse, era oggettivamente uno sfigato.

Uscita dal kebabbaro, Sara si sedette sulla panchina e iniziò a riflettere. Avrebbe potuto ripercorrere tutta la linea 2 andata e ritorno più e più volte nella vana e fantasiosa speranza che qualcuno come lei stesse facendo la stessa cosa e, toh, guarda caso, le andasse in contro con il suo zainetto (e relativo contenuto intatto) porgendole, oltre tutto, delle sentite scuse. Oppure avrebbe potuto fare un giro di telefonate agli amici italiani in città per sfogarsi rabbiosamente di quella insindacabile situazione di merda e chiedere loro consiglio. Oppure avrebbe potuto scrivere una canzone parlando della sfiga cosmica e di come una giornata apparentemente normale diventa poi una giornata di merda. Ho già detto merda? Oppure rivolgersi semplicemente alla polizia e sperare che il proprietario di quell’orribile mazzo di chiavi facesse lo stesso.
“A meno che non voglia dormire fuori casa per il resto della sua vita e spero proprio di no”, pensò. Si pulì la bocca, butto giù un sorso d’acqua e ripassando mentalmente la grammatica tedesca capitoli 1, 2 e 3 e con tutto l’entusiasmo che contraddistingue una giornata di merda (sì, ho già detto merda), si mise i guanti e si incamminò verso la stazione di Schonhauser Allee.

Dopo aver ripetutamente sbattuto la testa contro i campanelli accanto al portone, Matthias si concesse una pausa e studiò un piano d’azione. Piano A: ripercorrere tutta la linea 2 andata e ritorno più e più volte nella vana e fantasiosa speranza che una ragazza cercasse disperatamente uno zainetto contenente un assorbente rosa di Hello Kitty. Piano B: fare un giro di telefonate agli amici in città per sfogarsi rabbiosamente di quella insindacabile situazione di… disagio e chiedere loro un posto per la notte (sapendo a priori che, in quanto single sessualmente attivi, la risposta sarebbe stata un netto ed irrevocabile “Nein”). Piano C: sperare con tutte le forze che la proprietaria dell’assorbente rosa nonchè del portafoglio a cuori avesse un minimo di senso civico e si rivolgesse alla polizia, giusto per non lasciare che qualcuno dormisse fuori di casa (nel vero senso del termine) per tutto il resto della vita (o più correttamente, per tutto il resto di quella estenuante giornata di… freddo berlinese.). Così, stretto nel suo giubbotto e con una birra in mano, Matthias si diresse verso Schonhauser Allee.

Arrivati in stazione, entrambe salirono le scale ma da lati opposti. Entrambe si avvicinarono alla banchina, cercarono di farsi largo tra la massa di gente ma non si videro. Poi, d’un tratto, Matthias sentì una ragazza gridare qualcosa in italiano e un mano stringergli il braccio così forte da doversi fermare. “Scusa, che vuoi?” le chiese seccato. E lei, affannata, rispose: “Il mio zaino, grazie”.

“Berlino di merda” è frutto della mia immaginazione dalla prima all’ultima parola. Ogni riferimento a persone, a circostanze reali o a opere letterarie è da ritenersi puramente casuale.

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